Pierpaolo Mandetta ci da una lezione di vita, leggete…
“Amici e amiche, mi dispiace tanto dirvi che Billi è appena volato sul ponte.
Non ho scritto nulla prima perché è stato un declino molto improvviso. Aveva una terribile artrosi che gli ha deformato le ossa e paralizzato gli arti, e in pochi giorni si è spento senza che i medicinali potessero frenare il suo male.
Quest’anno era iniziato in modo strano, che già tramava qualcosa. Ha iniziato a invecchiarlo da un giorno all’altro, a rendergli il musone più asciutto e gli occhi più tristi. E io ho visto cambiare Billi molto in fretta, in questi mesi.
Quando l’ho adottato sapevo a cosa andavo incontro, perché si trattava di un cane già adulto, sui dieci anni, e molto malato. E questi tre anni e mezzo sono stati come una fiaba, in cui Billi è arrivato nella nostra vita come un anziano malconcio, ha avuto la sua rinascita da cucciolo raggiante, e poi un naturale declino verso l’autunno del corpo.
Ricordo benissimo il suo primo giorno.
Era stato un inverno piovosissimo, e ripensavo a quel cane chiuso in un recinto di due metri, sul bordo di una strada vicino al bar dei miei genitori. Quella notte ci fu una brutta tempesta e pensai chissà come sta quel cane, perché non aveva neppure una cuccia decente, né uno straccio per ripararsi dal freddo.
Lo conoscevo perché spesso ci passeggiavo davanti, e lui ringhiava non appena vedeva qualcuno. Poi si strusciava sulla rete e aspettava una carezza.
Non aveva mai conosciuto affetto, quindi il suo modo di chiamarlo era burbero e grezzo.
Viveva nell’erba alta un metro per sei mesi e nel fango gelato per altri sei. Sotto la pioggia, il vento, il sole rovente. Resisteva agli anni che passavano, e aveva imparato a cavarsela.
Così, quella mattina, andai a controllare, e trovai un cane diverso. La faccia gonfia dalle infezioni, e non più lucido.
Io non volevo un cane. Non avevo soldi per poterlo mantenere né curare, e avevamo da poco superato il primo anno di crisi col podere.
Ma non riuscii proprio a lasciarlo lì. Così chiesi alla padrona se potevo prenderlo, e lei me lo lasciò su due piedi.
Gli allacciai un guinzaglio e lo trascinai via. Lui si guardava spesso indietro e faceva resistenza, perché anche se quel posto era un incubo, era tutto ciò che conosceva.
Riuscii a portarlo al podere, che a quei tempi era solo un rudere in mezzo al niente. Acquistai una cuccia per la notte e gli feci un recinto coi pallet, ma a quel punto lui era così arrabbiato, esausto e avvilito che mordeva e non si faceva avvicinare. Perciò dovetti tirarlo dentro con la forza, e fu la prima volta che mi si strinse il cuore. Perché era davvero il simbolo dell’abbandono, dell’emotività mai sviluppata. Era un cumulo di sofferenza che non voleva più essere avvicinato.
Pensai addirittura che lo stavo maltrattando, che mi stavo accanendo, mi sentii in colpa e dubitai di ciò che facevo. E avevo paura di non saper gestire un animale così. Paura di addossare altre spese a Max, che già era in balia degli investitori del podere che ci avevano lasciati.
Ma in qualche modo entrambi superammo quella notte.
Il giorno dopo, anche se spaesato e con gli occhi quasi ciechi, lui si rese conto di non avere più un recinto intorno, e iniziò a camminare. E più camminava, più provava entusiasmo, e ricordo perfettamente che mi saltò addosso in festa e si fece accarezzare come se io fossi stato sempre il suo tutore.
Fu quello il momento in cui capii che avevo fatto bene, e che in qualche modo avremmo trovato una soluzione.
Il web ci riempì di calore e ci aiutò economicamente. Non potevamo dargli una sistemazione fantastica, ma facemmo il possibile. Mio cugino gli costruì un capanno per la notte, e acquistammo una cuccia termica.
Intanto, iniziammo le cure per la leishmania e furono settimane molto pesanti. Le medicine gli tolsero le forze, e doveva prendere colliri dolorosi per salvare ciò che restava della vista. E poi ci sentiva poco. E nonostante tutto, lui non diede mai problemi.
Credo sia stata questa la sua più grande virtù. Aveva tutto il diritto di fare capricci, essere ostile, rompere cose. Dopotutto non aveva educazione, e non ci conosceva. Eppure si affidò, con la sua pacatezza. Non era competente nel mostrare affetto, ma era molto felice di sentire una mano calda sulla testa.
Non fece mai una sola pipì nell’unica stanza del podere che era abitabile, e in cui c’era un divano in cui si godeva grosse dormite.
Certo, ci fu quel periodo bizzarro in cui, per qualche motivo che si è portato nella tomba, prese a scappare. Cioè, non erano vere fughe. È che lui amava camminare.
Era la sua unica passione.
Era stato per tutta la vita in prigione, e adesso che poteva muoversi non voleva più fermarsi.
Così ogni tanto usciva dai confini e vagava. Una volta lo trovammo chilometri lontano, alla stazione del paese, dopo aver dormito per una notte nel campo di un agricoltore che ce lo descrisse, e che disse che all’alba aveva ripreso a marciare. Vi giuro che non capiremo mai come aveva fatto a raggiungere i binari, perché era complicatissimo arrivarci.
E poi amava gli ossi. Gli compravamo gli ossoni di prosciutto. Prima li ripuliva, poi passava ore a tentare di seppellirli. Ma non era capace. Quindi tornava nella stanza col muso sporco di terra e queste ossa luride, ed era da riempire di baci.
Un piccolo canone di dieci anni che giocava a fare il cucciolo, alla scoperta del mondo.
A me divertivano tanto le sue stramberie. Per esempio, aveva un serpente di pezza, un po’ il suo amichetto, e se lo portava in giro. Poi scordava dove lo aveva messo e andava nel panico, e allora, sbuffando, mi mettevo a cercarlo per il podere.
Si accontentava di poco ed era molto indipendente. Ogni tanto lo vedevi tornare da una delle sue lunghissime passeggiate nel podere, come uno studente che rincasa tutto trafelato. E crollava per il sonno.
D’estate passava ore nel frutteto sotto gli alberi, a mangiare la frutta che cadeva. Si faceva una panza di fichi!
Non ha mai dato fastidio. Mai una seccatura. Si adattava a tutto. Per lui contava solo avere la certezza di un buon posto per dormire che sapesse di casa. Sentirsi al sicuro.
E infatti, quando l’anno scorso abbiamo dovuto lasciare quell’unica stanza del casale per l’inizio dei lavori, costruimmo un capanno di legno nel pollaio. E lui, come al solito, non fece drammi.
Decise che quello era il suo nuovo posto preferito. Gli facemmo perfino una gattaiola su misura, così da renderlo ancora più autonomo, e lui imparò a usarla in cinque minuti.
Così entrava e usciva quando gli pareva. E si fece il suo primo amico, Penni, l’ultimo gatto arrivato, con cui dormiva.
Ogni mattina ci aspettava lì fuori, in mezzo ai gatti e alle galline.
È stato il cane migliore del mondo. Ma è stato anche di più.
Sapete, il mio rammarico per un attimo è stato che non fosse riuscito a vedere il b&b aperto. Ma credo molto nel destino, e penso che Billi non sia arrivato per caso. Lui è stato il nostro angelo custode, qualunque cosa voglia dire. Ci ha in qualche modo distratti dalla disperazione di non sapere come fare a portare a termine il progetto del podere, e ci ha focalizzati su una creatura che aveva bisogno di noi.
Ci ha insegnato ad amarlo e ad amare quel posto. A non perderci mai d’animo. A ricordarci che chi ha bisogno di noi è più importante delle cose che vanno storte.
Ci ha condotti lungo questi tre anni molto difficili e li abbiamo affrontati insieme. E non è un caso che Billi abbia scelto di andarsene proprio ora che il cantiere è quasi chiuso.
È stato come se il suo compito fosse terminato, almeno nella forma di un cagnolone malato e strambo. Ha proprio deciso che poteva bastare. Che non poteva rinunciare alle sue passeggiate e non sarebbe diventato un peso. Se non poteva più camminare qui, avrebbe camminato altrove.
E io sono sicurissimo che lui tornerà da noi in un’altra veste. Per accompagnarci in una nuova avventura.
Lo amerò per sempre.
Grazie a tutti quelli che mi hanno aiutato a salvarlo.”
Grazie Pierpaolo Mandetta per tutto l’amore che hai dato a Billi❤️🐕❤️